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Bisogna (ancora) prendere il Giappone sul serio?

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Ronald Dore ricostruisce, sulla base della sua profonda conoscenza del Giappone, la sua attuale situazione e cosa questa esperienza può insegnarci.

 

Dovrei iniziare con delle scuse, anche se immagino che quando gli organizzatori mi hanno chiesto di parlare avrebbero dovuto sapere che se ti affidi a un oratore ultraottantenne che ha continuato a studiare il Giappone per 69 anni, ti puoi aspettare un po’ di  autobiografia autoindulgente. Come alcuni di voi forse avranno riconosciuto, il titolo del  mio intervento si riferisce al titolo di  un libro che diedi alle stampe nel 1987, Taking Japan Seriously. Libro che nel 2000 venne pubblicato, nella traduzione italiana de Il Mulino, con il titolo Bisogna prendere il Giappone sul serio. Per rispondere all’interrogativo dell’intervento è necessario ricordare alcune tappe della storia del Giappone.

 

Il Giappone nell’immediato dopoguerra.

Inizio ricordando qualche antefatto. Uno dei momenti più stimolanti della mia vita fu nel 1950 quando ero studente all’Università di Tokyo e andavo nelle campagne a fare inchieste con un gruppo di studenti post laurea giapponesi per valutare la possibilità che il tasso di nascita in Giappone potesse diminuire. In quel momento il tasso di nascita, che tutti allora consideravano disastrosamente alto, era di 35 nuove nascite ogni 1000 abitanti. Erano passati cinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale e si era all’inizio della guerra in Corea. Mi ricordo di un amico che era stato un giovane ufficiale di fanteria e che manifestava una considerevole soddisfazione nel vedere gli americani, Ame-chan, braccati lungo la penisola coreana per opera dei nordcoreani. Tuttavia l’interminabile discussione che avveniva tutte le sere era molto più impegnativa, seria e sofisticata di quella schadenfreude [termine tedesco per indicare il piacere derivato dalla sfortuna degli altri]. Come poteva essere definita la vera democrazia? Il Giappone avrebbe potuto evitare di diventare fascista? E perché era diventato fascista? Maruyama teneva in quel periodo le lezioni, che poi divennero il suo libro, in cui comparava la natura del fascismo tedesco con  quella del fascismo  giapponese, e alcuni suoi allievi facevano parte del nostro gruppo di ricerca.

Uno dei modi con cui in Giappone si esprimevano le proprie opinioni politiche consisteva nella scelta della parola utilizzata per descrivere quanto accaduto il 15 agosto del 1945. Gli ottimisti, che ritenevano che le cose sarebbero proseguite bene,  chiamavano quel giorno shusen no hi (il giorno in cui la guerra è finita) e questa era anche l’espressione utilizzata in genere dei giornali. C’erano però anche altri che si ostinavano a chiamare quel giorno hai sen no hi (il giorno in cui abbiamo perso la guerra). Alcuni di questi erano ardenti riformatori che volevano cogliere ogni occasione per ricordare all’esercito e agli ultranazionalisti      quale disastro avessero fatto nel loro paese. Ma tra questi  vi erano anche i nazionalisti, ancora molto amareggiati dalla sconfitta che speravano che la storia avrebbe dato loro una possibilità di rivincita. Utilizzavano il termine “sconfitta” per ricordare continuamente  l’umiliazione subita dal Giappone e  la necessità di una rappresaglia per vendicarsi. In sintesi c’erano tre tipi di giapponesi: i progressisti, che parlavano di “sconfitta” usando questo termine a favore della pace e della democrazia;i nazionalisti che usavano il termine “sconfitta” per esortare alla vendetta e poi i centristi che parlavano di “guerra finita”.

 

Il Giappone negli anni ’60 e ’70

Descriviamo velocemente gli anni che vanno dagli inizi degli anni ’60 alla fine degli anni ’70. Gli anni ’60 sono stati  il decennio della crescita economica a due cifre e, in questi anni, ci sono state le note Olimpiadi di Tokyo, l’Esposizione Mondiale di Osaka e l’ammissione del Giappone tra le Nazioni Unite. Negli anni ’70 il Giappone si è poi ripreso molto bene dallo shock petrolifero con una caduta dell’inflazione e una riduzione del rapporto tra utilizzo energetico e prodotto nazionale lordo (PNL) più veloce e con meno disagi sociali rispetto a ogni altra nazione industriale. Le esportazioni di automobili giapponesi crescevano in quegli anni in modo stabile e con incrementi sempre più elevati e questo soprattutto per la qualità delle auto  e non del loro prezzo basso. Le tensioni commerciali con i sempre più agitati Stati Uniti erano da parte del Giappone oggetto di negoziati pazienti e senza fine.

Nel 1979, alla fine degli anni ’70, Ezra Vogel, professore ad Harvard, pubblicò il suo libro Japan as Number One. Lesson for America, che analizzava con ammirazione vari aspetti della società giapponese: la sua istruzione, la gentilezza delle persone verso il prossimo, la mancanza di crimini, la qualità della burocrazia, la politica industriale, l’organizzazione e l’innovazione tecnologica, ecc. Tutti questi aspetti erano implicitamente o esplicitamente valutati confrontandoli con gli Stati Uniti, è sempre a svantaggio di questi ultimi. Complessivamente ero d’accordo con  le tesi di Vogel, come scrissi in una recensione del suo libro per il New York Times, ma ero  un po’ preoccupato che il successo economico giapponese finisse con l’attribuire una crescente influenza in Giappone a quelli che ho prima  etichettato come i nazionalisti. Per questo conclusi quella recensione scrivendo: “voglia Dio proteggere Vogel tanto dagli amici che si farà in Giappone quanto dai nemici che potrebbe avere criticando l’America”.

Il libro di Vogel, tradotto in giapponese,  Japan azzu nannba wan divenne un best seller in Giappone e fu seguito, negli anni ’80,  da molti altri  libri di professori di business school americane che avevano titoli come The Art of Japanese Management, Zen and Japanese Management, Japanese Management: Tradition and Transition, Total Quality Control in Japanese Management, ecc., molti dei quali venivano con orgoglio tradotti in giapponese. Ogni business school americana fu come obbligata e tenere un corso sul management giapponese. Negli Stati Uniti e in Europa, si  sviluppò il fiorente movimento dei “Circoli Qualità” per imbrigliare con idee innovative i lavoratori e la Fiat assoldò un team di consulenti giapponesi per farsi dire come riorganizzare il proprio sistema di produzione.

 

Il Giappone negli anni ’80

Nella prima metà degli anni ’80 stavo lavorando in un istituto di ricerca a Londra denominato Technical Change Centre per fare alcune ricerche sul campo nelle fabbriche britanniche e riflettere su che cosa la Gran Bretagna avrebbe potuto imparare veramente dal Giappone. Il mio libro Bisogna prendere il Giappone sul serio fu un prodotto di quegli anni. Trattava aspetti diversi: l’addestramento del lavoro industriale, la contrattazione dei salari, la politica dei redditi, la corporate governance, la contabilità nazionale, i sistemi pensionistici, i contratti di subappalto, le regole del mercato azionario e così via. Il tesi sottostante a queste analisi  era  che  le differenze tra Giappone e Gran Bretagna potevano essere raggruppate in due. Un primo insieme di differenze affrontava la diversa organizzazione istituzionale che poteva essere cambiata per mezzo di leggi o di prassi manageriale, ed essere così facilmente trapiantata da una società all’altra. Un secondo insieme di differenze veniva invece attribuito a questioni di cultura, indole comportamentale, motivazioni, carattere nazionale o termini analoghi per cui, ad esempio, era possibile individuare una profonda differenza tra una Gran Bretagna individualistica e un Giappone non individualistico. Il sottotitolo nella traduzione de Il Mulino era Un saggio sulla varietà dei capitalismi, ma, nell’originale, era Una prospettiva confuciana riguardante alcuni dibattiti economici.

In quel libro iniziavo contrapponendo due visioni fondamentali della condizione umana: una, quella cristiana prevalente nelle società dell’Ottocento,  quando la disciplina dell’economia politica era stata creata, che proponeva la visione di un individuo gravato dal peccato originale. E l’altra, quella di Mencio, che vedeva l’uomo come un essere di originaria virtù, spesso peccatore, ma sempre capace di ritrovare la sua bontà. Due filosofie, ma anche due ricette per l’organizzazione della società. Secondo la prima, la gente lavora solo per il proprio utile individuale per cui se volete una società pacifica e prospera, limitatevi a creare delle istituzioni che funzionino in modo da mobilitare l’interesse individuale di ciascuno, e lasciate che la mano invisibile del mercato faccia tutto il resto. E proprio questa è stata la ricetta applicata dalla Thatcher e da Reagan agli inizi degli anni ottanta. Come ha detto il poeta angloamericano T. S. Eliot, loro cercavano di creare “una società così perfezionata che non c’è nessuna necessità di essere buoni”. Secondo l’altra ricetta, invece, i motivi per i quali la gente lavora sono sempre misti. Oltre al proprio utile personale, c’è anche la ricerca  di  amicizia e  fratellanza, insieme alla lealtà e al senso di appartenenza alla propria comunità, alla propria impresa, alla propria nazione.

Un esempio è quello che nelle fabbriche inglesi sono chiamati suggestion schemes, schemi per incentivare gli operai a fornire proposte ai manager per il miglioramento dei prodotti o dei processi. In Inghilterra le idee proposte vengono esaminate da un comitato di ingegneri che decidono se valga o meno la pena di adottarle. Se queste idee sono adottate, viene calcolato il risparmio o il valore aggiunto ottenibile in un periodo di uno o due anni e l’impresa paga al lavoratore una percentuale, di solito la metà, di quella somma calcolata: in altri termini l’impresa compra l’idea dall’operaio, visto come soggetto indipendente. In Giappone, non era così. Vi era una scala di premi e l’autore della nuova idea, otteneva un primo premio, un secondo, un terzo premio o una menzione d’onore e se era un’innovazione brevettabile, diventava di proprietà dell’impresa. Il valore monetario dei premi era poco elevato, e di solito non ne rimaneva molto dopo aver fatto la festa obbligatoria, offrendo da bere a tutti i compagni di lavoro per celebrare l’onore ricevuto. Si ritiene  infatti  che sia il riconoscimento da parte della comunità dei membri dell’impresa a rappresentare in sé la ricompensa più importante.

 

Il Giappone dagli anni ’90 ad oggi

Ho detto “si ritiene” ma avrei dovuto dire “si riteneva” perchè il 1987 è già lontano. Il decennio degli anni ’90 ha cambiato il Giappone in modo più radicale di quanto abbia cambiato qualsiasi altro paese industriale, cambiamenti in particolare nella corporate governance e nel diritto del lavoro. Per rimanere nell’ambito degli schemi di incentivazione e delle invenzioni da parte dei dipendenti, una pietra miliare nella storia è stata nel gennaio del 2003 una sentenza del Tribunale Distrettuale di Tokyo che ha imposto a Nichia, un’azienda relativamente piccola di Shikoku, di pagare 20 miliardi di yen (circa 200 milioni di euro, poco meno del totale dei profitti dell’azienda nel periodo di sei anni 1995 – 2001) a un suo ex ricercatore, Nakamura Shuji, che in quel momento era professore all’Università di California Santa Barbara. L’invenzione di Nakamura era il Blue LED, un diodo emittente luce. Nakamura si era laureato in un’università di provincia e, subito dopo la laurea, si era impiegato nella piccola azienda di illuminazione, Nichia, a Shikoku. Il Blue LED era considerato da tutti un prodotto desiderabile, ma nessuno sapeva come farlo. Nel 1988, Nakamura decise che fosse una sfida da affrontare e l’azienda lo mandò per un anno all’Università della Florida a imparare una tecnologia particolarmente importante, e gli acquistò il macchinario costoso che quella tecnologia richiedeva. Nel 1990 fece la sua scoperta e inventò un processo per produrre i diodi emittenti luce azzurra. L’azienda immediatamente fece richiesta per il brevetto e, dopo qualche difficoltà e la riscrittura delle specifiche, il brevetto venne registrato nel 1997. In accordo con i regolamenti dell’azienda per i premi d’innovazione, Nakamura ricevette quanto gli era dovuto: 20.000 yen (circa 170 euro) nel momento in cui venne fatta la richiesta per il brevetto, e il corrispettivo di altri 170 euro quando venne registrato. Nel frattempo, ulteriori lavori ai quali Nakamura prese parte, e ulteriori brevetti a tutela, portarono allo sviluppo di un processo di produzione di massa nel quale l’azienda investì pesantemente, riuscendo così a conquistare una quota dominante di un mercato mondiale, quota che si ampliò  rapidamente.

Dopo quanto avvenuto, la fama di Nakamura e i suoi rapporti con gli americani si intensificarono. Nello stesso periodo il suo senso di lealtà alla Nichia si attenuò, e nel 1999 partì dal Giappone per una cattedra in California. Sembrò a un certo punto che Nichia stesse intentando, o pensasse di intentare, una causa contro di lui per violazione del segreto industriale, ma Nakamura la controdenunciò facendole causa per il “giusto prezzo” della sua idea. Poteva fare questo sulla base di una legge giapponese sui brevetti modellata sulla legge anglosassone, da lungo tempo promulgata, ma raramente applicata. La legge dava al  giudice il potere di fare direttamente i  propri calcoli e così si arrivò a quella somma sorprendente, stimando i profitti di lungo termine ottenibili dall’azienda in seguito alle invenzioni di Nakamura. Il giudice, una volta stimati i  profitti li divise per due: metà per  il giovane inventore e metà per l’azienda.

Il caso andò avanti per qualche anno, e il dibattito tra le parti in causa avvenne con particolare asprezza. La sentenza non ebbe poi, nel complesso, il favore della stampa perché molti manager del settore Ricerca e Sviluppo manifestarono le loro preoccupazioni per il precedente che si era creato. Come si può fare una programmazione razionale della Ricerca e Sviluppo se c’è sempre in agguato la possibilità che dopo dieci anni si potrebbe essere obbligati a pagare a qualche dipendente scontento milioni di yen? Il presidente dell’Associazione dei Dirigenti Industriali (Doyukai) disse che tutto questo avrebbe potuto avere un effetto rovinoso sulla competitività giapponese[1]. I responsabili dei dipartimenti di ricerca aziendale che si sentivano poco apprezzati si  rallegrarono invece dalla sentenza, e in un convegno un professore dell’Università di Tokyo rilevò che nell’industria le retribuzioni complessive di una vita di lavoro dei laureati in scienze e in ingegneria fossero di gran lunga al di sotto di quelle dei laureati in arte e scienze sociali e che sarebbe stata una buona cosa se questa sentenza avesse contribuito a ristabilire un equilibrio retributivo tra queste due categorie di laureati[2].

Poi, come prevedibile, il clamore della controversia finì e oggi il sistema dei compensi per inventori interni a una impresa non è molto diverso da quello stabilito dalle leggi vigenti  negli Stati Uniti e in Europa. Tutto questo può essere considerato un indicatore  del fatto  che il Giappone è diventato (a) una società molto più individualistica e (b) una società nella quale la motivazione del profitto è  più forte di tutte le altre possibili motivazioni.

 

Il sistema dei salari

Per far capire i cambiamenti avvenuti posso utilizzare un’altro tipo di dati. Negli anni ’90 sono avvenuti molti cambiamenti nella corporate governance e il sistema dei salari nelle società giapponesi è mutato in molti modi, con gli stipendi mensili meno legati all’anzianità e più alle prestazioni. Una caratteristica delle aziende giapponesi sembrava non mutata:  in aggiunta ai loro stipendi mensili, la maggior parte dei dipendenti riceveva un bonus annuale di un importo compreso tra una volta e mezza e quattro volte la loro retribuzione mensile, a seconda di quanto stava andando bene l’azienda. Gli amministratori della società ricevevano a loro volta un bonus che veniva calcolato non come costo – come i bonus dei dipendenti – ma come percentuale dei profitti della società al netto delle tasse. Ma nonostante questa differenza formale, per un quarto di secolo, dal periodo successivo alla crisi petrolifera fino al 1999, nelle grandissime società con un capitale sopra il miliardo di yen, il reddito complessivo degli amministratori – stipendi più bonus – era coerentemente appena sopra o sotto il doppio di quello dei loro dipendenti. In altri termini, i dati riflettevano la concezione che i top manager avevano dell’azienda come comunità stabile, con uno stabile rapporto di equi compensi in funzione della posizione gerarchica occupata. Ciò che è cambiato in questo periodo è stato tuttavia rilevante. I vincoli sulle decisioni dei manager su quanto pagare se stessi non sono oggi più così  rigidi come  una volta. Nel 2005, appena prima  della ultima crisi, un amministratore percepiva in media quattro volte il compenso medio di un dipendente. Si è ancora molto lontani  dalle retribuzioni dei manager di molte aziende americane che arrivano a  percepire compensi 800 – 900 volte superiori a quelli dei loro dipendenti, ma si sta andando in quella direzione. Permettetemi di elencare altre differenze tra il Giappone del 1990 e il Giappone d’oggi

Il sistema educativo

Il sistema educativo era nel 1990  qualcosa di cui la nazione era orgogliosa. In Giappone non solo chi vi studiava otteneva dei buoni punteggi nei test internazionali di conoscenza matematica, storica, e così via ma il Giappone era allora ritenuto un paese che aveva un alto livello di uguaglianza  nelle opportunità di istruzione. Nel 1990, anche se in percentuali meno alte rispetto agli anni ’70, almeno metà degli studenti che passavano gli esami di ingresso alle migliori università nazionali proveniva da licei pubblici. L’anno scorso la percentuale di studenti  entrati all’Università di Tokyo provenienti da licei pubblici è stata invece solo del 7%[3] e la maggioranza proveniva da licei privati oppure dai due licei nazionali che prendono quasi tutti gli studenti da scuole  elementari private.

 

La politica

Esaminiamo la politica. Nel 1990, per una strana coincidenza,  Italia e Giappone erano noti, tra gli scienziati della politica, come esempi principali di “sistemi a un partito e mezzo”. E, per una coincidenza altrettanto strana, nel 1992 crollarono in  entrambe le nazioni i due sistemi politici che erano stati considerati stabili per un quarto di secolo fino alla fine della guerra fredda. In Italia questo avvenne a causa dell’implosione del Partito Comunista e di tangentopoli; in Giappone come risultato delle ambizioni personali disgregatrici di un politico particolare, Ozawa, che dopo venti anni finalmente sembrò aver perso la sua influenza personale nella politica giapponese. Oggi però nelle elezioni del Partito democratico avvenute due settimane fa, Ozawa  ha fatto un sorprendente ritorno mettendo due dei suoi uomini al controllo dei fondi del partito e delle nomine elettorali.

Nel Giappone prima del 1990, i due partiti che formavano il “partito e mezzo”, i liberaldemocratici (LDP, con un più o meno stabile 60% dei voti) e i due partiti socialisti (circa un terzo dei voti), aveva stabilito da lungo tempo  un patto in cui evitavano un confronto violento in parlamento come avevano fatto negli anni ’60. La promulgazione delle nuove leggi (in Giappone, come in ogni altro paese industriale, sempre più nuove leggi rispetto all’anno precedente) veniva effettuata attraverso negoziazioni nascoste istituzionalizzate che enfatizzavano il compromesso e la moderazione. Il LDP era, tradizionalmente, il partito del mondo degli affari, ma evitava una produzione legislativa che avrebbe infastidito troppo i sindacati che erano la risorsa chiave del potere elettorale dei socialisti.

Oggi il Giappone ha un sistema a due partiti. I politologi giapponesi sono orgogliosi di questo fatto. Ammiratori della democrazia anglosassone hanno cercato per molti anni di porre in essere questo tipo di sistema. Fortunatamente per il Giappone, i due partiti non sono così ideologicamente differenti, o brutalmente conflittuali, come i Democratici e i Repubblicani negli Stati Uniti. Il problema è l’opposto: i due partiti sono in incessante competizione per il potere, ma, rispetto a ciò che avviene negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, sono ideologicamente molto simili. Per convenzione si considera  LDP di destra e DPJ di sinistra.  Ma consideriamo, ad esempio Maehara, un leader politico del DPJ. Lui sarebbe diventato primo ministro se il disgregatore Ozawa, che ho appena menzionato, non avesse condizionato le elezioni, e Maehara è, in politica economica, in politica estera e per vocazione politica complessiva, ben più a destra del leader del LDP Tanigaki. All’interno del partito di governo, il DPJ, c’è ancora una presenza dei socialisti che si unirono a questo partito un decennio fa e che mantengono  relazioni con il Rengo, il sindacato nazionale che ha un potere molto limitato. Ma questi socialisti hanno sulla politica un’influenza rapidamente decrescente per cui sono possibili all’interno del DPJ posizioni di destra.

I mass media

Passiamo ai media. Ci sono ancora, come nel 1990, gli stessi quattro quotidiani nazionali con tirature di milioni di copie: l’Asahi, il Mainichi, il Nikkei e lo Yomiuri, ma  nel 1990 questi avevano caratteristiche politiche distinte. L’Asahi e il Mainichi erano scettici sul valore del Trattato sulla sicurezza Stati Uniti-Giappone, mentre il Nikkei e lo Yomiuri erano entusiasticamente in suo favore. L’Asahi e il Mainichi erano infatti i custodi degli ideali del dopoguerra di uguaglianza delle opportunità educative, mentre lo Yomiuri e il Nikkei, erano preoccupati soprattutto di massimizzare il contributo delle scuole per la supremazia economica del Giappone. I primi due facevano la voce grossa per il contenimento del bilancio della difesa all’uno per cento del PIL, gli altri invocavano il riarmo. Oggi invece tutti parlano con la stessa voce neoliberale filoamericana e, con l’eccezione occasionale del Mainichi, vogliono tutti più deregolamentazione e un governo con minor potere essendo tutti  terrorizzati dalla Cina invocando per la difesa relazioni più strette con l’America.

Tuttavia,  la convergenza ha anche i suoi meriti, e questi meriti, suppongo, si possono individuare nel fatto che tutti questi quotidiani hanno colorati supplementi domenicali. La ricchezza, in questo caso, sono sicuro, non è stata nemica del buon gusto. Gli articoli su i film, musica digitale, cucina francese e ultimi ritrovamenti archeologici sono di una raffinatezza molto maggiore rispetto a venti anni fa, e di pari valore culturale, comunque lo si misuri. E sull’Asahi del lunedì si può  trovare la gara di poesia Waka, di cui Ishikawa Takuboku è stato il giudice iniziatore proprio 101 anni fa[4]. E poi c’è la soap opera per famiglie tutte le mattine sulla NHK, una rappresentazione noh recitata alla domenica mattina e un opulento sceneggiato storico la domenica sera. Non ho potuto vedere molti film, ma ricordo che il bambino innocente che ho dentro di me si è enormemente divertito e meravigliato con Tonari no Totaro e con Sen to Chihiro no Kamikakushi di Miyazaki. Ma ricordo anche alcuni film orribili e gratuitamente violenti di Beeto Takeshi, e recentemente ho fatto l’esperienza di farmi intervistare per un cosiddetto programma-dibattito del quale lui era il presentatore e posso affermare che la mia intervista è poi stata montata in modo scandalosamente disonesto[5]. Ma invece che continuare a esporre i miei rancori e mal informati pregiudizi letterari lanciandomi in paragoni tra – per dire – i racconti realistici sulla società del dopoguerra di Ishikawa Tatsuzo e le eroine nevrotiche di Murakami Haruki, è meglio tornare al mondo dell’economia che conosco un pochino di più.

L’economia

Nel 1990 il Giappone era ancora generalmente conosciuto come il paese dell’impiego a vita: Shushin koyou. Ogni generazione che usciva dalla scuola superiore o dall’università faceva a gara per entrare nella migliore azienda o nel migliore dipartimento possibile all’interno del governo. I più brillanti laureati della Università di Tokyo  competevano per entrare nel Ministero delle Finanze o nella Mitsubishi Shoji; i non così brillanti laureati delle università di provincia, come il Nakamura  prima ricordato,  competevano per entrare nelle migliori piccole aziende locali mentre i diplomati delle scuole superiori puntavano ai migliori impieghi  operai nelle grandi compagnie. L’ottanta per cento di loro ce la faceva e trovava lavori che promettevano sicurezza, una retribuzione lentamente crescente e una buona pensione. Molti di loro lasciavano il loro primo impiego nei primissimi anni, ma trovavano altri lavori migliori e altrettanto sicuri. La maggior parte delle persone aveva una varietà di opportunità prima di impegnarsi nel diventare membro a vita di una particolare azienda. Meno del venti percento della popolazione era occupata in lavori temporanei o a tempo determinato e molti di loro erano persone che non volevano lavori da dipendente preferendo la libertà alla sicurezza.

Oggi, al contrario, la sicurezza sembra essere l’obiettivo che ognuno vuole, ma che molti non possono ottenere. Il precariato rappresenta un terzo della forza lavoro e una larga percentuale di esso è costituito da persone deluse che hanno provato a ottenere un lavoro permanente, ma che hanno fallito. Il problema del hiseiki, è così che  il precariato viene chiamato, è da tutti ritenuto  un problema sociale serio ed è reso ancora più serio dal fatto stesso che viene riconosciuto come un grande problema nazionale sul quale  molto si discute. Il terzo dei giovani che oggi è precario si sente  stigmatizzato, con l’etichetta di uno che è fallito. Nel 1990,invece, il venti per cento di chi non aveva lavori permanenti non si sentiva mai particolarmente stigmatizzato.

 

Perché sono avvenuti questi cambiamenti?

Temo di annoiarvi con le mie geremiadi, pertanto lasciatemi provare per un momento a fare lo studioso piuttosto che un editorialista da giornale, e porre la domanda perché tutti questi cambiamenti hanno avuto luogo. Un’ovvia parte della risposta è che si è trattato di uno straripamento della rivoluzione neoliberale  dilagata in America e Gran Bretagna, i cuori del capitalismo anglosassone, dai giorni di Reagan e della Thatcher. I meccanismi principali di trasmissione di questo modo di pensare sono state le business school e i dipartimenti post laurea di economia e scienze politiche delle università americane. Centinaia, probabilmente migliaia, di giapponesi erano stati spediti negli anni ’60 e ’70 a prendersi diplomi americani. Entro il 1990 i ministeri e le grandi compagnie giapponesi che avevano pagato per la loro istruzione all’estero, li avevano assunti con posizioni decisionali influenti nelle loro aziende, nei dipartimenti all’interno del governo e nelle università. Nei dipartimenti di economia delle università giapponesi questi economisti formatisi in America rimpiazzarono i marxisti che avevano dominato nelle università nell’immediato dopoguerra, e cominciarono a produrre in proprio i loro economisti fautori del libero mercato. Matsushita, il famoso produttore degli articoli Panasonic, creò nel 1979 il suo Matsushita Seikeijuku, l’Istituto Matsushita di Governo e Management, e cominciò a formare politici orientati al libero mercato. Venticinque dei suoi diplomati sono attualmente membri del partito di governo nella Dieta, compresi il primo ministro e Maehara che, come ho prima  ricordato, è molto più a destra del leader dell’opposizione conservatrice.

L’effetto di questi processi di trasmissione ideologica, o di americanizzazione se preferite chiamarla così (perché Gran Bretagna, Australia o Canada, gli altri principali paesi del capitalismo anglosassone, hanno avuto un ruolo inferiore rispetto agli Stati Uniti)  furono molto più profondi in Giappone che in Italia, Germania o Francia. Una ragione può essere individuata nel contesto internazionale. I giapponesi per poter essere liberati dall’occupazione americana sancita dal Trattato di Pace di San Francisco del 1951, furono messi sotto pressione per firmare un trattato sulla sicurezza che consentiva agli americani di continuare a occupare Okinawa e a mantenere proprie basi militari in Giappone. I giapponesi con qualche riluttanza avevano cooperato militarmente con gli Stati Uniti negli anni ’50, ma successivamente questa cooperazione venne realizzata con entusiasmo crescente dal momento che l’accordo originario di affitto delle bas venne trasformato in un’alleanza, vista come  mezzo essenziale di difesa, per un Giappone non dotato di armi nucleari, contro l’Unione Sovietica.

Oggi, gli obiettivi di difesa comuni sono naturalmente contro la Cina anziché contro la Russia. Nelle fasi iniziali dell’industrializzazione in Cina, il Giappone, con la sua enorme superiorità tecnologica, aveva sfruttato molto bene la Cina con joint venture e investimenti in fabbriche interamente di sua proprietà che si avvantaggiarono del costo del lavoro cinese molto più basso. La Cina oggi però sta recuperando sotto il profilo tecnologico a un tasso molto più veloce di quanto il Giappone fece negli anni sessanta e settanta, ed è molto meno riconoscente per gli investimenti e il know how giapponesi. In Cina gli stipendi stanno crescendo rapidamente ed è ovvio che è la Cina, in questo secolo appena iniziato, e non il Giappone, a divenire  economicamente e diplomaticamente la nazione più potente in Asia essendo quasi altrettanto ovvio che sarà la Cina ad essere, anche militarmente, la potenza dominante. Appena due settimane fa, un politologo di Princeton in un contro editoriale apparso sul New York Times, esortava  l’America ad aumentare, e non tagliare, come Obama lascia intendere, le sue spese per la difesa. Il messaggio è chiaro: se non aumentano le spese militari gli Stati Uniti  incorreranno nell’ovvio pericolo di perdere il controllo del Pacifico occidentale perdendo in tal modo la fiducia dei suoi alleati nell’area, perché non sarebbe capace di difenderli. Questo modo di argomentare suona in modo molto attraente  per i repubblicani sciovinisti, ma non abbastanza da convertire il Tea Party nel diventare  sostenitore di un maggiore deficit e di tasse più alte.

 

L’importanza di Confucio in Asia

Come andrà a finire la relazione triangolare Stati Uniti-Giappone-Cina è troppo presto per dirlo, ma un fattore che non può essere escluso nel lungo periodo è la comune eredità confuciana che Cina, Giappone e Corea condividono. Fatemi raccontare solo un episodio che mi si è fissato nella mente. Fukuda è stato l’ultimo primo ministro giapponese che ha avuto la  possibilità di sviluppare un tipo di relazione personale con i leader cinesi da essere  avvicinata per  fiducia e franchezza alla relazione personale tra Berlusconi e Putin oppure tra la Merkel e Sarkozy. Quando Fukuda visitò la Cina nel 2007, andò a visitare ill luogo natale di Confucio. Le fotografie lo immortalarono mentre mostrava uno striscione, che Fukuda aveva vergato nella sua calligrafia di tutto rispetto,  che utilizzava una citazione dai Dialoghi di Confucio. L’aforisma di Confucio era “Promuovi la tradizione e comprendi il nuovo”. Fukuda sostituì “comprendi” con “crea”. Egli infatti creò molte cose durante quella visita, compreso iniziare un accordo per l’esplorazione congiunta dei giacimenti di petrolio sotto il mare dove le acque territoriali di Giappone e Cina si incontrano. Se non avesse dovuto, con dolore, abbandonare dopo un anno il ruolo di primo ministro le recenti baruffe sulle isole Senkaku non avrebbero mai raggiunto la dimensione che hanno avuto. Ma l’accordo è stato abbandonato dal suo successore sciovinista che molto semplicemente ha adottato la visione americana che “la crescita della Cina” sia una minaccia per l’Occidente.

 

Bisogna ancora prendere il Giappone sul serio?

Credo sia ora di spiegare che cosa intendevo dire con    quell’ancora nel titolo del mio intervento. Uno dei significati di questo termine è profondamente mutato. Nel 1990, prendere il Giappone seriamente significava imparare da qualcuna delle ammirevoli caratteristiche della società giapponese. Oggi significa, più probabilmente,  non fare quel che ha fatto il Giappone. Imparare a non ripetere  quelli che ora sono visti come gli errori in politica economica del Giappone: nel lasciare che la deflazione si radicasse, non permettere alla domanda di contrarsi, non consentire alla disoccupazione di crescere e alla crescita economica di stagnare o di arretrare. Il New York Times di una settimana fa[6] ha iniziato  il suo commento economico con questa frase:

“Giapponizzazione significa in un paese trascinarsi verso il mix malsano di bassa crescita e debito alto” e l’ultimo numero dell’Ekonomisuto del Mainichi ha messo in copertina questa frase ”Iyo iyo hajimatta Beikoku no ‘nihonka” [7]. “Finalmente è iniziata  la giapponizzazione dell’ America”.Il Giappone è diventato quello che i giapponesi chiamano hannmen kyoshi: un insegnante che non fare. Purtroppo sembra che nessun governo al mondo stia prendendo a cuore quella lezione perché sono tutti troppo occupati a tentare di calmare i mercati obbligazionari parlando di riduzione del deficit e del debito. Il Giappone da insegnante che non sa fare, hannmen kyoshi potrebbe diventare   zenmen kyoshi, un insegnante di come fare   dandoci lezioni su come minimizzare le conseguenze sociali negative derivanti dal seguire le politiche neolberiste e dall’aver creato depressione economica. La disuguaglianza è infatti cresciuta in Giappone come ho descritto ma in confronto con gli Stati Uniti o con la Gran Bretagna, i redditi più alti non sono schizzati via sopra la mediana come hanno fatto nei paesi anglosassoni. Il Giappone ha tenuto la disoccupazione in basso attorno al cinque per cento perfino nel momento più profondo della recessione dei tardi anni ’90 e degli ultimi tre anni. E questo in gran parte a causa di una umana riluttanza a licenziare i dipendenti perfino dopo che il loro lavoro era diventato non più necessario a causa della caduta della domanda. Ho citato precedentemente i dati per il 2005 quando il rapporto tra i redditi dei top manager e quello dei dipendenti ordinari è raddoppiato. Ma dal 2005, con il sorgere della crisi economica, il rapporto è sceso nuovamente. In altre parole, i top manager hanno apportato tagli ai loro compensi e ai bonus più grandi di quelli dei dipendenti – di nuovo una evidente differenza con gli Stati Uniti dove il rapporto dirigente/dipendente è andato sempre crescendo – anche grazie ai soldi versati da parte del governo per salvare le grandi banche e della General Motors. Ma quel che ha portato il Giappone in evidenza nei titoli dei nostri giornali quest’anno è stato, naturalmente, il terremoto, il terribile tsunami e gli eventi successivi. Una volta ancora il popolo giapponese ha mostrato la sua resistenza nell’affrontare le avversità. E’ molto difficile valutare la risposta burocratica e politica, perché i resoconti sono stati distorti da molti cacciatori al capro espiatorio (i politici hanno biasimato le compagnie energetiche, le compagnie energetiche hanno biasimato i burocrati e i giornalisti hanno biasimato tutti) ma la mia impressione è che quel disastro nucleare sia stato gestito nel modo migliore in cui si poteva farlo. Per quanto poi riguarda la questione se vi sia stato un errore all’origine nel costruire delle barriere antitsunami alte solo 11 metri, quando alcuni archeologi sostengono che un migliaio di anni fa, nel periodo Nara, ci fu uno tsunami di 13 metri, (ebbene) nessuna società può vivere senza accettare qualche rischio. Ciò che è stato molto più significativo dopo il disastro, è stato il modo in cui le persone normali hanno cercato di aiutarsi l’una con l’altra, la preoccupazione per il prossimo che hanno mostrato       e la loro efficienza nel canalizzarla. Ho ricevuto un e-mail da un amico che descriveva come la gente nei centri per i rifugiati non stesse aspettando passivamente gli aiuti ufficiali, ma creasse le proprie organizzazioni autonome e si dividesse il lavoro necessario per rendere le loro vite più vivibili, e questo amico faceva questo commento “il senso di comunità, che sembrava essersi così attenuato dopo trent’anni di neoliberalismo, sembra essere rinato”. Se  dobbiamo pensare seriamente a qualcosa che c’è in Giappone che dovremmo cercare di emulare, mi sembra che sia questo. Come costruire istituzioni che lavorino per dare alla gente un senso di appartenenza a una comunità densa di significato, e come fare in modo che esse sentano la responsabilità non solo per se stessi ma anche verso i loro concittadini

 

Questo intervento è stato presentato il 15 settembre 2011 da Ronald Dore al convegno promosso a Bologna da Aiustugia (Associazione Italiana per gli studi  giapponesi) . La traduzione è stata fatta da Luca  Fornaroli.

 

 

 

 


[1] Nihon Keizai Shimbun 3 Feb 2004

[2] Shokuin hatsumei kitei kaiseian ni nokoru gimon. (Proposta per la revisione della legge relative alle invenzioni dei dipendenti: dubbi rimanenti) http.chizai.nikkeibp.co.jp/chizai/gov/20040223.html

[3] Devo al Prof. Takehiko Kariya questa stima dei dati del 1990, e a Wikipedia e al Sunday Mainichi i dati relativi al 2009.

[4] Devo a Fujikazu Suzuki queste e altre informazioni sui media giapponesi, e negli anni per molte altre informazioni rivelatrici.

[5] Nippon Terebi, 21 Feb 2011

[6] Alan Wheatley, “Time to act to rescue the euro zone” International Herald Tribune, 6 settembre 2011-09-08

[7] Ekonomisuto 6 settembre 2011


 


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